La paura di dimenticare (1° parte)

La signora Anita era seduta sulla panca appoggiata al muro bianco della casa , e , rilassata , offriva le membra al caldo abbraccio del sole di luglio, per raccoglierne tutto il calore, fino a riscaldare il midollo delle ossa , attraverso quella strana pelle un po' avvizzita , attraverso quelle vene così evidenti sotto il colore dorato dell'epidermide , per far riscaldare anche gli organi interni che, a suo dire, conservavano ancora il freddo del suo passato.
La figura dalle forme scarne, i capelli bianchi come la neve, che contrastavano con l'abbronzatura del viso, il naso aquilino, spartiacque tra i due laghi profondi e scuri degli occhi, tutto era offerto al sole, perfino le dita restavano aperte e distese per accogliere il calore.
Era capace di restare immobile per ore, su quella panca dura, con le spalle ed il capo appoggiate a quel muro bianco, nell'angolo del giardino trasformato in orto, dove il sole d'estate indugiava dal tardo mattino al pomeriggio inoltrato, creando un'oasi di luce nella quale trovavano rifugio, insieme ai gatti, la signora Anita e le villeggianti che ospitava nella sua grande casa.
Nei pomeriggi di sole, abbronzarsi era un modo di trascorrere insieme qualche ora nell'ovattato sopore del "dopo-mangiato", scambiando pensieri e desideri, sogni e ricordi, in un disordine selvaggio e pieno di fantasia.
La grande casa bianca, con le persiane ed il tetto scuri,  aveva due entrate: sul davanti al piano terra e sul dietro al primo piano, così da rendere i due spazi indipendenti.
L'estate  il piano superiore ospitava sempre qualche famiglia che voleva trascorrere qualche mese in montagna, in quella valle verdissima, con il torrente che scorreva a fondo valle , il Biois, con le case arrampicate sul fianco esposto a levante, così da prendere il sole da quando compariva dietro il crinale del monte di fronte, sino a quando scompariva alle spalle di quello al lato lontano.
Il piccolo paese, sulla statale che portava ad uno dei passi delle Dolomiti, viveva del turismo estivo ed invernale.
L'aria tesa, lavata dalle fronde dei boschi e profumata dalla resina dei pini di montagna, rinfrancava i polmoni e lo spirito di chi la respirava.
La signora Anita e le sue amiche, sedute sulla panca, osservavano, filtrando la luce tra le ciglia socchiuse, i bambini che giocavano girando dietro lo steccato, per nascondersi sotto alle panchine del piccolo chiosco di legno, costruito in mezzo al prato scosceso, nell'unico  terrazzamento esistente, e ricordavano le avventure belle e brutte del passato.
Una bimba dagli occhi curiosi, paffutella e pigra, adorava sedersi ai loro piedi per ascoltare le "fiabe" di vita vissuta.
La signora Anita era ebrea, e ,negli anni della guerra, era una giovane sposa che viveva nel ghetto di Venezia.  Abitava in una delle Calli, aveva una bella casa con le stanze grandi e luminose, raccontava, con l'altana che guardava i tetti delle case sul Canal Grande. Se si sporgeva un po' vedeva il campanile di una chiesa, Venezia è piena di "cese", "canaii", "gati"e.."sorsi " (topi) naturalmente, le vecchie e care "pantegane" che  "le spaventa anca i gati coi so oceti rossi come el fogo". 
Nel ghetto di Venezia le leggi razziali, all'inizio, venivano interpretate un po' a modo loro, la gente era abituata a convivere con razze e religioni diverse, mori, arabi, nordici, slavi, turchi, ostrogoti e, forse, i veri nemici, per un veneziano erano gli austriaci, quelli del .."..sul ponte sventola bandiera bianca."! Quelli erano ancora nel sangue dei veneziani e quel "bafetin" di Hitler era austriaco, e Mussolini "ghe ‘ndava drio!"…"tute monade! I ‘brei xe venesiani da sempre, no i xe miga  foresti, … par cosa vuto che i sia nemisi!"!
Solo pochi accettavano le norme razziali, la maggior parte dei veneziani continuavano la loro vita senza dar retta alle grida fasciste o naziste.
Venezia è, ancor oggi,  una repubblica a se stante nel sangue dei suoi cittadini, la mentalità del vero veneziano autoctono è il prodotto di secoli di vita sul mare, di commerci di tutto e con tutti. La vera "razza superiore", per chi è nato a Venezia, è il veneziano puro, frutto della miscela dei più pregiati DNA, selezionati dalla vita dura del marinaio, dell'esploratore, del commerciante.
Anche il dialetto è una barriera per gli estranei, solo se nasci nelle calli, tra l'odore dell'urina dei gatti, mescolata alla salsedine e alla muffa dell'umidità permanente , solo se muovi i primi passi sul granito lucido dei corridoi in penombra, solo se succhi il latte da un seno offerto davanti ad una finestra sul canale, solo se ti addormenti con la nenia della "Nineta" , solo allora fai parte di quella razza eletta, che non rinuncia alla sua flemma se non per bestemmiare quando interferisci con la loro quiete, di quella parte di umanità che non permette ad alcuno di imporle il suo pensiero, capace di rispondere, magari tra i denti, senza mai chinare, se non in apparenza, il capo.
Così la signora Anita ed il suo piccino continuavano a vivere nel ghetto, dovevano solo fare attenzione a non incappare in qualche stupido "foresto" che non avrebbe rispettato le regole non scritte.
Ma il tempo e la guerra cambiano tante cose, ed anche tra i veneziani "doc" qualcuno cambia idea.
Quelle case nel ghetto sono belle e le camicie nere sono autorizzate a prenderne possesso.
Gli ebrei hanno il meglio del commercio a Venezia, le botteghe più in vista sono le loro. Ed allora perché non perseguitare gli ebrei? Farli sparire e prendersi tutto?!
La signora Anita ha tanti amici "ariani " che non sono d'accordo con le "sparizioni" legalizzate e le offrono aiuto.
Lei sa su di chi può contare, ma è pronta a tutto, anche al tradimento, il mondo è diventato così strano!

-" Una mattina , saranno state le tre e dormivamo tranquilli, ma, come sempre ormai, con un occhio solo perché giravano voci di retate improvvise sempre più frequenti, quando sento bussare piano alla porta.
Mi alzo subito, era il Nani che, con gli occhi stralunati, mi diceva che i fascisti stavano portando via tutti quelli della zona ed erano già dal Notaio Camberle, e stavano arrivando anche nella mia zona!
Non chiedo niente , corro in camera e m'infilo i vestiti pronti sulla sedia, preparati nell'evenienza che… già!    Proprio di dover scappare in fretta.
Prendo la borsa preparata nell'armadio, poi corro a prender Pietro nel suo lettino , non lo vesto ma lo avvolgo bene nella coperta, Lui mi guarda in silenzio, ha capito che non deve piangere, non so perché, ma sa che non deve farlo. Lo stringo al petto e passo la borsa a Nani, nella borsetta ho già tutti i soldi e gli ori (era pronta anche quella), poi, giù per le scale, saranno passati al massimo tre minuti, e via nella calle scura attaccati alle pareti viscide, verso le fondamenta nuove , dove abita la Rosy, la sorella del Nani, che "..la ne speta "..
Dio! La paura! Non credo di aver mai tirato il fiato per tutto il tragitto!…ma la strada  era libera, i fascisti erano dall'altra parte."

La signora Anita fissa con gli occhi socchiusi un punto lontano, quasi il ricordo fosse un film proiettato sulla montagna di fronte.
Le parole fluiscono dalle labbra sottili, dipinte con un rossetto rosso carminio, che s'infiltra nelle piccole rughe  attorno alla bocca. La voce è sommessa al ricordo del "cuore che batte impazzito", degli occhi spalancati nel buio, del bimbo che non piange, della corsa nella notte, del rumore degli scarponi dei soldati che si allontana alle sue spalle.
(continua)

La paura di dimenticare (1° parte)ultima modifica: 2007-01-22T19:29:08+01:00da serenity48
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2 pensieri su “La paura di dimenticare (1° parte)

  1. A dirla tutta il postscriptum l’avevo scritto giusto come battuta e invece sto ricevendo dei commenti di solidarietà alla Pat, del tipo “compralo e basta, senza che te lo chieda”. Sono rimasto sconvolto, la solidarietà tra donne è qualcosa di pazzesco….se pensi che la Pat guadagna più del doppio del sottoscritto… ..mah!
    Bacioni, Andrea

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